I diritti umani non sono né universali né naturali: un’evoluzione nella storia del diritto internazionale?

blog_EN_dirittiumani

Introduzione

I diritti umani sono in bilico, non solo in Paesi in cui ci si aspetterebbe che lo siano, ma anche in Paesi insospettabili che hanno a lungo lottato per la loro affermazione. E’ questa la premessa da cui parte un saggio significativamente intitolato Human Rights are neither Universal nor Natural. Ne è autore il giurista Rein Müllerson, professore emerito all’Università di Tallin, membro ed ex presidente del prestigioso Institut de Droit International. A rendere interessante la trattazione va aggiunto che il saggio appare nell’ultimo numero del “Chinese Journal of International Law”, altrettanto prestigiosa rivista della Chinese Society of International Law, pubblicata dalla Oxford University Press (vol. 17, n. 4, December 2018, pp. 925-942).

Quali le problematiche, quale lo stato dell’arte e i futuribili che Müllerson ci consegna? Egli parte dalla constatazione, già accennata, che i diritti umani sono in bilico: sia come diritti naturali sia come diritti universali. E ciò, sottolinea lo studioso, accade proprio nella culla in cui quei diritti sono cresciuti: il vecchio Occidente. E se ciò accade in Occidente, si deduce che anche altrove la concezione dei diritti umani trovi complessi problemi di definizione e di applicazione.

I fatti internazionali, lo stato delle relazioni diplomatiche, i fenomeni demografici e i sommovimenti economici fanno pensare che si sia nel pieno di un’evoluzione storica del diritto internazionale, e che ciò stia avvenendo proprio nel campo dei diritti umani.

Teoria politica, Storia e Diritto

Per comprendere ciò che sta accadendo occorre anteporre la Storia alla teoria, come consiglia Francis Fukuyama. Le teorie devono cioè essere desunte dai fatti, e non viceversa. E’ certamente vero che non si può essere empirici senza teorizzare; ma, spiega Fukuyama, «troppo spesso le scienze sociali iniziano con un’elegante teoria e poi cercano i fatti che la confermino»; e questo è da evitare (F. Fukuyama, The Origins of Political Order from Prehuman Times to the French Revolution, New York, Farrar, Straus and Giraux 2011, p. 24).

Se allora ci concentriamo sull’analisi storica troviamo il primo nodo da sciogliere: constatiamo che una differente visione dei diritti umani non si manifesta solo in rapporto a differenti società umane, ma spesso proprio all’interno della stessa società occidentale. L’Occidente ha sperimentato di recente crociate per la democrazia, come in Afghanistan e in Iraq. Ma è inevitabile porsi la seguente domanda: «L’Iraq era in quel modo perché Saddam era in quel modo, o Saddam era in quel modo perché l’Iraq era in quel modo?» (Cfr. The Big Question, in “The International Herald Tribune”, 4–5 March 2006, A6). «La risposta più appropriata, o almeno la migliore secondo me – spiega Müllerson – probabilmente dovrebbe essere che l’Iraq era pronto per Saddam e che una persona come Saddam Hussein non avrebbe potuto giungere al potere, e ancor meno sarebbe stata in grado di governare per decenni in una società che fosse stata radicalmente differente dalla società irachena» (Müllerson, pp. 927-928).

Dire quindi che i diritti umani sono universali e naturali, spiega Müllerson, non contribuisce di per sé a migliorare il mondo. «I governanti solitamente si meritano le loro società, e di regola anche le società si meritano i loro governanti; per quanto ci possano essere dei dittatori che si rivelano così sanguinari, brutali e anche pazzi che non vi è nazione che possa esserseli meritati. Idi Amin, Pol Pot, Saddam Hussein o Muammar Gheddafi possono avere eccelso nella loro classe. Avendo solo scritto tali nomi ho notato che tutti sono stati rovesciati grazie a un intervento militare esterno; la principale conseguente differenza essendo che mentre il rovesciamento dei primi due ha portato considerevole sollievo ai popoli su cui questi dittatori avevano governato, il rovesciamento degli ultimi ha gettato le società che avevano governato nel caos. Perché ciò? Secondo me principalmente perché nei primi due casi coloro che sono intervenuti – la Tanzania e il Vietnam – non intrapresero sforzi per cambiare radicalmente le fondamenta delle società ugandese e cambogiana; mentre in Iraq e in Libia gli occidentali che intervennero hanno cercato d’imporre, in modo semplicistico e ipocrita, idee di democrazia liberale» (ivi, p. 928).

Diritti umani universali o “universalizzabili”?

Ecco dunque il primo problema da affrontare quando si parla di diritti umani.

Se si ignora la storia dell’umanità; se si ignorano le differenti culture e se si ignorano le differenti società; se si proced per astratte dottrine filosofiche chiudendo gli occhi dinanzi all’umanità e alla diversità del mondo circostante; se si fa tutto ciò, non si comprende come mai la causa dei diritti umani oggi non progredisca. Senza tralasciare una semplice constatazione: «Ci furono tempi in cui non c’erano affatto diritti umani; sebbene ci fossero già esseri umani sulla terra» (Ivi, p. 929). Per dirla con Pierre Manent, «da un lato, partiamo dalla premessa che i diritti umani sono universali, applicabili a tutti gli esseri umani senza eccezione; da un altro lato, assumiamo che tutte le “culture”, tutti i modi di vivere sono di pari dignità e che la denuncia di alcuni di essi, o anche lo stabilire una gerarchia fra essi sarebbe contrario all’uguaglianza tra esseri umani. Da un lato, tutti gli esseri umani sono uguali; dall’altro, tutte le culture meritano egual rispetto. Non è raro che qualcuno si senta oltraggiato dallo status delle donne nelle società musulmane, ma che condanni allo stesso tempo coloro che criticano l’Islam» (Pierre Manent, La Loi Naturelle et les Droits de l’Homme, Paris, Puf 2018, p. 4.)

Non a caso Müllerson ci ricorda che affollano il pianeta società umane che da benpensanti rispettiamo e perfino tuteliamo; ma che fanno orrore alla nostra concezione dei diritti umani. Per esempio, la tribù degli Yanomami, che vive nella foresta pluviale amazzonica sul confine tra Brasile e Venezuela, ben nota agli antropologi, è una tribù notoriamente violenta, e che insegna la violenza ai bambini fin dalla tenera età; oltre a dedicarsi alla caccia, gli Yanomami fanno guerra alle tribù vicine, uccidendo uomini vecchi e bambini e rapendone le donne. Dobbiamo imporre agli Yanomami la nostra visione liberal-democratica dei diritti umani universali? O dobbiamo concludere che la tribù degli Yanomami è patrimonio comune dell’umanità da tutelare nelle sue pratiche, nelle sue tradizioni e nelle sue leggi? Dovrebbero le autorità di Venezuela e Brasile intervenire contro gli eccidi tribali che si consumano nella foresta amazzonica; o concludere che la sopravvivenza di quelle tribù prevale su ciò che in altre regioni del mondo definiremmo “crimini contro l’umanità”?

Qui dunque è il secondo snodo, a un tempo problematico e dilemmatico, della nostra analisi.

Se riteniamo che i diritti umani siano anche universali, allora dobbiamo privilegiare questa visione universale passando un colpo di spugna sulle culture che riteniamo “antagoniste” di questa visione: ossia dovremmo cancellare tutti gli usi e costumi, le leggi tribali, le credenze e le normative di società e di civiltà lontanissime dalla concezione universale da noi affermata. E dovremmo altresì condannare tutte queste società e tutte quelle civiltà che anteponessero le loro culture, le loro norme e i loro stili di vita alla nostra concezione universale dei diritti umani.

Se invece, in un approccio multiculturale e “politicamente corretto”, assumessimo che ogni cultura, ogni società e ogni organizzazione sociale abbiano diritto a un proprio posto nel complesso villaggio globale, e siano portatori di valori, di usi, di tradizioni e di norme degni del massimo rispetto, ebbene allora dovremmo concludere che i diritti umani non sono universali, dato che essi si arresterebbero dinanzi a norme a essi contrarie, radicate in quelle comunità umane che non si rispecchiano nella nostra concezione del mondo. Non a caso Müllerson ci dice che mentre oggi alcuni diritti umani possono essere considerati universali, altri invece potrebbero esserlo solo in futuro; ossia sarebbero diritti, non universali, ma “universalizzabili”.

Il “bioritmo” delle norme internazionali e dei diritti umani

Vi è poi una condizione oggettiva. Le norme internazionali hanno un loro “bioritmo”, un loro ciclo vitale. Appaiono e non di rado scompaiono. Müllerson ci dice che i diritti che oggi esistono domani potrebbero scomparire: sia perché alcune condizioni avranno reso possibile il loro realizzarsi; sia perché magari sarà scomparso quell’errore cui una specifica norma fu chiamata a porre rimedio. Per lo studioso estone ne discende una conseguenza: «La possibilità di realizzazione dei diritti umani, almeno in via di principio, se non necessariamente sempre nella pratica, è una condizione sine qua non della loro stessa esistenza come diritti». Pertanto «se certi valori o interessi fondamentali della gente, oggi garantiti e concettualizzati come diritti umani, fossero completamente e irrevocabilmente soddisfatti, non ci sarebbe più alcun bisogno di garantirli come diritti umani» (Müllerson, p. 930).

Ecco dunque presentarsi un orizzonte ben diverso da quello aperto dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948: «Non solo non tutti i diritti umani sono universali, ma neppure essi sono naturali. O piuttosto, essi possono essere naturali così come gli errori umani. Gli errori umani possono esser stati, parlando storicamente, anche più naturali dei diritti umani. Praticamente tutte le società esistenti sono state, usando linguaggio e costumi odierni, xenofobe per millenni; la paura e la diffidenza hanno nelle società umane radici più profonde dell’apertura o della semplice curiosità verso gli stranieri; e, come oggi possiamo osservare, alcuni dei nostri istinti primordiali non sono ancora scomparsi, sempre se essi scompariranno mai del tutto.» (Müllerson, pp. 930-931).

Diritti umani e sicurezza. Tutto ciò che è “umano” non sempre è “umanitario”

Un altro tema, collegato ai diritti umani, è quello del loro rapporto con i problemi della sicurezza. Richard Rorty, in una delle Oxford Amnesty Lectures, ha incisivamente posto la questione. «Per sicurezza – ha osservato – io intendo condizioni di vita sufficientemente prive di rischi, tali da rendere la differenza di uno dagli altri non essenziale al rispetto reciproco e al senso di dignità. Di tali condizioni hanno goduto americani ed europei: la gente che ha concepito la cultura dei diritti umani, molto più di quanto abbia goduto chiunque altro» (Richard Rorty, Human Rights, Rationality, and Sentimentality, in: Stephen Shute and Susan Hurley eds., On Human Rights. Oxford Amnesty Lectures, New York, Basic Books 1993, p. 128)

Quando tuttavia sussistano concrete minacce alla sicurezza degli Stati, che cosa ne è della costruzione universalistica dei diritti umani sanciti nella Dichiarazione del 1948? «Quando la sicurezza di qualcuno è minacciata, particolarmente quando stranieri lontanissimi e sofferenti iniziano ad arrivare da noi in massa, la nostra simpatia verso di loro e verso le loro sofferenze viene minata. Naturalmente vi sono sempre eccezioni significative, ma per molti è assai più facile simpatizzare con le vittime di violazioni di diritti umani dalle sponde del Lago Lemano (a Ginevra, dove le principali attività delle Nazioni Unite nel campo dei diritti umani hanno luogo) che stando loro vicini in campi profughi in Medio Oriente o nelle strade di alcune capitali europee. Così, sia i diritti umani che esprimono il buono che esiste negli esseri umani, sia gli errori umani che riflettono il male che esiste nel mondo intorno a noi così come in noi, sono umani nella stessa misura; sebbene non necessariamente umanitari» (Müllerson, p. 931).

Tutto ciò che è umano, dunque, non sempre è umanitario. «Come si può vedere dalla storia dell’evoluzione dei diritti umani […], l’emergere e l’evolvere dei diritti umani è stato un processo graduale. Inoltre, è stato un processo difficile, con molti contrattempi; è stato sempre necessario lottare non solo, e inizialmente non tutti, per l’osservanza dei diritti umani; ma anche per fissare il concetto di “diritto umano”. Per esempio, uno dei primi atti scritti che può esser qualificato come uno strumento di diritti umani, la Magna Carta, era un documento che Re Giovanni d’Inghilerra fu costretto a garantire nel 1215 ai suoi baroni a Runnymede, nei pressi di Windsor […]. Questo testo si proponeva di tutelare solo alcuni diritti (diventati diritti in un momento successivo; prima erano istanze) degli uomini liberi: particolarmente dei baroni, come pure della Chiesa. Colui che redasse una delle frasi più citate al mondo (“Riteniamo queste verità di piana evidenza, che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono stati dotati dal Creatore di certi inalienabili diritti, fra i quali vi sono la vita, la libertà e il perseguimento della felicità”) era lui stesso un padrone di schiavi. E la lotta per il riconoscimento dei diritti delle donne, e più tardi dei diritti delle persone con orientamenti sessuali non tradizionali, sono troppo recenti per credere che i diritti umani siano universali e naturali. E’ stato sempre necessario prima lottare per il riconoscimento anche dei più vitali ed elementari valori e dei fondamentali interessi come diritti umani; e poi per la loro osservanza e per la loro messa in pratica. Ciò che può essere ovvio per molti, o anche per la maggioranza degli esseri umani di oggi (e di proposito non dico “per tutti e ovunque”), fu o potrebbe esser stata eresia per molti o per la maggioranza, secoli o anche decenni or sono» (Müllerson, pp. 932-933).

Una “terza via” tra diritti universali e società e culture locali?

Eccoci dunque tornare al dilemma della scelta: crediamo in diritti umani universali e naturali esistenti ab ovo, sin dall’apparizione dell’uomo sulla terra; o crediamo nella dignità delle società particolari, nella loro lenta evoluzione, e nella possibilità che detta evoluzione alla fine si armonizzi con una concezione universale e naturale dei diritti umani? Crediamo che il rispetto di un unico corpus di diritti umani universali e naturali possa essere direttamente imposto qui e ora a tutti gli Stati e a tutte le comunità umane; o dobbiamo salvaguardare norme, principi e usanze locali di quelle società, anche se nettamente in contrasto con i diritti umani universali? Se un antropologo ponesse queste domande a un giurista e a uno storico, essi non saprebbero dare una risposta immediata; e tale risposta in ultima analisi varierebbe, a seconda di voler anteporre le teorie ai fatti, o viceversa.

Müllerson sembra ventilare in proposito una “terza via” fra universalità dei diritti e specificità delle culture sulla terra. «Gli universalisti, cioè i fautori di una storia universale per l’intera umanità e dei diritti umani universali, siano essi marxisti o liberal-democratici, tendono a sottostimare le differenze: non tanto fra esseri umani quanto fra società umane; differenze acquisite nel lungo viaggio dell’Homo Sapiens da un villaggio africano agli angoli più remoti del pianeta Terra. Al contempo, i relativisti culturali, forti nell’enfatizzare solo le differenze, trascurano di apprezzare i caratteri universali insiti in tutte, o nella gran parte delle comunità umane; e che in un mondo globalizzato tendono a crescere d’importanza» (Müllerson, p. 933).

Ecco dunque una possibile “terza via”: dovremmo, con un processo lungo, faticoso e paziente, cercare di enfatizzare ciò che di universale esiste in tutte le comunità umane; e che in un sistema globalizzato è più facile mettere alla luce e far conoscere al resto del mondo. «Ogni società umana è universale perché è umana; ed è particolare perché è una società», ha scritto nel 1994 Michael Walzer in Thick and Thin: Moral Argument at Home and Abroad (University of Notre Dame Press 1994, p. 8).

Se una “terza via” (per quanto lunga e tortuosa) è percorribile, occorre partire da qui: ogni società particolare ha qualcosa di universale che l’accomuna alle altre; ma al contempo non è completamente universale. Scrive Haidt: «Diffidate di chiunque insista che vi è una sola vera moralità per tutti i popoli, per tutti i tempi e per tutti i luoghi: particolarmente se quella moralità è basata su un unico fondamento morale» (Jonathan Haidt, The Righteous Mind: Why Good People Are Divided by Politics and ReligioCiò che èn, New York, Panthein Books 2012, p. 368).

Ciò che è “universale” vale per tutti?

Ma sia l’antinomia diritti universali-società particolari, sia l’ipotesi di una “terza via” mediata non consentono di sfuggire a un interrogativo: la teoria che i diritti umani siano universali (come tali cogenti per tutto il pianeta) e naturali (come tali esistenti da sempre, per alcuni per legge divina) non è per caso un “cavallo di Troia” per esportare valori non trapiantabili in società profondamente diverse da quelle occidentali? Lo stesso Müllerson pone il problema in maniera piuttosto netta: «Cercar di rendere più simili esseri umani che appartengono a tali differenti società, usando inter alia il discorso dei diritti umani e dell’esportazione della democrazia e dei valori liberali, può seminare non così tanta democrazia e non così tanti diritti umani, quanto invece caos e distruzione. E questa non è una conclusione teorica (seppur sia possibile e anche necessario chiedersi perché questi tentativi sono finiti male), ma una realtà di vita che oggi constatiamo in differenti parti del mondo. Anche l’idea dell’universalità dei diritti umani, nonostante le buone intenzioni di gran parte dei suoi avvocati e indipendentemente dai positivi risultati che tale idea ha prodotto, ha il suo lato oscuro. Se compiuta appositamente per distruggere società che non si conformano, o se compiuta nella sincera convinzione che ciò che è buono per noi sia (o dovrebbe essere) buono e vero per tutti, una tale forzata omogeinizzazione del mondo da eterogenee singole società distrugge molti Paesi, facendo a pezzi legami sviluppati nei secoli o nel corso di millenni; e che non sono suscettibili di rapido mutamento» (Müllerson, pp. 934-935).

Esportare la democrazia per mezzo di interventi militari; è questo il metodo giusto per affermare l’universalità e la naturalità dei diritti umani? «Non tutti gli interventi militari – scrive Müllerson – si sono rivelati fallimentari; ma intervenire negli affari interni di altri Paesi attraverso sanzioni economiche o pressioni politiche, se non autorizzati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, più spesso ha peggiorato le cose anziché migliorarle. […] Spesso, anche se non sempre, si dà il caso che meno gli Stati criticano altri Stati sui diritti umani, meglio è per i diritti umani stessi» (ivi, p. 935).

L’instabilità sociale internazionale e i possibili rimedi

Il punto è che il mondo non è più così stabile come si crede. E non c’entra la fine della Guerra Fredda. Non ci si è accorti che i problemi d’instabilità della comunità internazionale risalgono a molto tempo prima. Almeno dal 1980 la società internazionale vive una trasformazione rivoluzionaria: il bipolarismo è finito, non con la caduta del muro di Berlino, ma con l’ideazione dello “scudo spaziale”: il sistema antimissile americano che praticamente ha vanificato qualsiasi attacco nucleare dell’URSS, e dunque resa superflua la politica e reso costosa per Mosca la ricerca nel campo del riarmo missilistico. Al bipolarismo, inoltre, non si è sostituito l’unipolarismo. Gli Stati Uniti hanno avuto molta difficoltà a gestirsi come unica superpotenza, in un mondo improvvisamente privo dei sovietici, dato che la fine dell’URSS non era prevista, o perlomeno non a così breve scadenza. Si sono dovuti ridisegnare scenari e si è dovuto tener conto di nuovi attori. Ma, cosa ancor più grave, si è voluto credere che, finita l’URSS, la Russia avesse cessato di essere una superpotenza. Alla fine del bipolarismo ha fatto perciò seguito la nascita di un indistinto multipolarismo, o forse di nessun polarismo.

Finché la polvere della confusione, posandosi, non avrà consentito di rivedere il sole, sarà difficile attendersi, spiega Müllerson, che il diritto internazionale e i diritti umani, come parte di quel diritto più generale, funzionino normalmente.

Vi è poi, annidata nella comunità internazionale, una vera e propria “bomba a orologeria”: è il conflittuale rapporto tra liberalismo e democrazia, che noi crediamo complementari e reciprocamente armonici, ma che nei periodi di crisi della società occidentale (si pensi alla più grave crisi economica verificatasi dal 1929) evidenziano soprattutto una forte dicotomia “amico-nemico”. I liberali definiscono i democratici dei populisti; i democratici definiscono i liberali un’élite avulsa dai bisogni della gente. Vi è poi nei sistemi occidentali una sempre più marcata discrasia tra responso elettorale e competenza parlamentare. «Le caratteristiche che sono necessarie a venir eletti – ha scritto efficacemente Dominique Moïsi – non sono le stesse che si rendono necessarie per fare le cose» (D. Moïsi, La Geopolitique des Series ou le Triumph de la Peur, Paris, Stock 2016, p. 596).

Tutto ciò rende difficile gestire situazioni nazionali e internazionali di emergenza, in cui i diritti umani entrano in gioco: specialmente qualora alla quantità del voto non corrisponda la qualità dell’uomo che ne ha giovato. Questo, si badi bene, è un fenomeno che investe l’intera società occidentale, che con crisi mal gestite (o non gestite affatto) ha subito una vera mutazione genetica. La crisi economica e sociale internazionale di questi ultimi anni ha portato David Goodhart (The Road to Somewhere: The Populist Revolt and the Future of Politics, London, Hurst 2017 pp. 19 ss.) a distinguere nella società odierna due categorie: gli Anywheres (ossia l’elite che ha beneficiato della globalizzazione, i “poteri forti” che sono stati in grado di trarre profitti politici ed economici dalla crisi); e i Somewheres (tutto il resto della gente; tutti coloro che sono rimasti schiacciati dalla crisi globale). Gli uni hanno sempre preteso di avere delle soluzioni astraendo dai bisogni popolari e fingendo di conoscere quei bisogni. Gli altri si sono sempre arrabattati quotidianamente, ansiosi solo di conquistare uno spazio, anzi uno spiraglio vitale, alla ricerca di una loro identità e nella speranza di non essere completamente schiacciati da chi sinora ha sempre deciso per loro.

Il fenomeno migratorio ha comprensibilmente aggravato la situazione: gli anywheres si sono potuti permettere di recitare la parte dei bien-pensants e di compiere il beau geste di un’accoglienza indistinta e soprattutto gestita senza criteri né prospettive. I somewheres, quelli schiacciati e “proletarizzati” dalla crisi, hanno reagito opponendosi a un’accoglienza indiscriminata dei migranti, suscettibile di sottrarre di continuo risorse al welfare e alla spesa pubblica sociale nazionale. Se all’apparenza tutto ciò ha generato la classica “guerra fra poveri”, è un dato di fatto che la politica “benpensante” e senza prospettive di una parte dell’Occidente, nel gestire male l’ondata dei flussi migratori, non ha fatto che accrescere la massa dei somewheres in Europa.

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. «La globalizzazione e l’attuale marea migratoria, che ne è una delle manifestazioni, stanno esacerbando la crisi odierna dell’Unione Europea, dove coloro che posso essere anywhere non comprendono coloro che vogliono essere somewhere. Quelli che possono essere anywhere, essendo dominanti nella politica, nell’economia e nei media, si stanno comportando come autocrati liberali vis-à-vis coloro che essi considerano appartenenti alla plebe. Di recente il filosofo Bernand-Henry Lévy […] ha accusato i populisti di confondere la democrazia con la demagogia e il popolo con la plebe, mentre Hillary Clinton aveva tempo prima definito i sostenitori di Trump come dei perdenti male informati. Una tale miope arroganza comporta un pesante prezzo politico» (Müllerson, pp. 938-939). E lo si è visto, sia in Europa, sia negli Stati Uniti.

Chi è anywhere non può bellamente disinteressarsi, dunque, da chi cerca di essere semplicemente somewhere; né può pretendere che l’etichetta di “populista” spieghi tutto. Coloro che non hanno privilegi e che cercano semplicemente di sopravvivere sono coloro che soffrono tutti gli effetti delle disuguaglianze odierne; e che la crisi ha trasformato in diseredati, in famiglie ridotte al lastrico, in piccoli imprenditori finiti male, in giovani disoccupati, in una media borghesia scivolata nell’indigenza. Tutto ciò ha fortemente amplificato l’ineguaglianza globale tra i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Müllerson è chiaro sul punto: «L’ineguaglianza globale è una delle principali cause dell’attuale ondata migratoria. Oggi possiamo vederla molto chiaramente in America Latina, dove carovane di migranti stanno viaggiando dall’Honduras e dal Guatemala, via Messico, verso i confini degli Stati Uniti. Presumibilmente, tre grandi strategie saranno necessarie per l’Europa. Primo, integrare davvero quei migranti che sono già in Europa e che inevitabilmente arriveranno nel futuro. E per integrazione io intendo almeno parziale assimilazione; sarebbe necessario seguire la massima “A Roma, fare come fanno i romani”. […] Se uno Stato manca di adottare misure necessarie per proteggere la popolazione dalla minacce terroristiche, ciò può rappresentare, tra le altre cose, una violazione del diritto alla vita per omissione».

Conclusioni sul nuovo quadro internazionale

Ma il controllo dei flussi migratori comporta anche l’adozione di misure che in qualche modo limitino i diritti umani, dato che le migrazioni massicce dai paesi islamici, e in particolare da quelli arabi, ha sollevato un’ondata di antisemitismo e di islamofobia.

Stabilire un ordine multipolare in un sistema simile sarà possibile solo ritornando al concetto classico dell’equilibrio di potenza e del concerto fra le Potenze. E’ questa la via, perché è l’unica che potrà consentire una cooperazione che non può più esser condotta con i criteri dell’Ottocento e del Novecento; ma neppure essere lasciata all’incolta improvvisazione di alcuni statisti dell’epoca attuale.

La coesistenza pura e semplice non basta più perché, di per sé, non garantisce la pace e in più consente a chiunque governi di provare un malcelato senso di superiorità rispetto a tutti gli altri. Il noli me tangere fra grandi Potenze, il non toccarsi e l’ignorarsi a vicenda, non è più sufficiente. In secondo luogo, occorre capire che l’universalismo dei diritti è solo l’ultima thule di un processo lento, articolato e che procede per successivi stadi di raffinamento.

Pretendere che ciò che è valido per l’Occidente qui e ora possa e debba esser valido per il resto del pianeta non è una categoria politologica sostenibile, dato che siamo sempre a est o a ovest, a nord o a sud di qualcuno. Un tale approccio è inoltre svuotato del suo spessore culturale. Gli statisti che hanno attraversato il Novecento, specialmente dopo due guerre mondiali, avevano una formazione tale da comprendere perfettamente i rischi della coesistenza nuda e cruda, al punto da supportarla con una cooperazione fatta di trattati che, bene o male, rappresentavano un legame anche fra opposti sistemi di diritti e di valori. La cultura o incultura politica di molti statisti odierni ritiene che ormai si possa cancellare un grande trattato internazionale senza sostituirvi alcunché; non comprendendo che proprio questo mette a repentaglio la coesistenza pacifica nel mondo.

Senza approntare nuove forme di reciproca e di fattiva cooperazione fra opposti sistemi politici, senza fare uno sforzo di collaborazione tra le varie componenti della comunità internazionale (e rafforzando anche le organizzazioni internazionali a vocazione universale), il mondo attuale è destinato a vivere uno stato di pericolosa anarchia che prima nessuno sarebbe stato in grado di immaginare.

Una riedizione della logica del Congresso di Vienna, applicata mutatis mutatis all’odierna complessa situazione mondiale, potrebbe forse rappresentare un tentativo di risposta.cropped-europenation2-1.jpg