Nei suoi primi anni di vita, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) promosse l’emissione di titoli sponsorizzati dalla Banca Mondiale. Erano nati gli Eurobond, esempio di vera solidarietà finanziaria europea mai più ripetutosi. Ecco perché.
Introduzione
Qualche anno fa Hans-Jörg Rudloff, Presidente di Barclays, ebbe modo di osservare che la storia dei mercati finanziari e dei titoli di Stato è tra le più affascinanti da studiare.
Guerra e pace, dopoguerra e ricostruzione. Sono questi i motivi per cui si emettono titoli di stato. Ciò è vero dai tempi delle città-stato dell’Italia medievale. Se potesse conteggiarsi l’ammontare del debito contratto dalla Serenissima Repubblica di Venezia dai tempi di Marco Polo, è probabile che ancora adesso lo Stato italiano succedutole avrebbe qualche rata da pagare, se esistessero ancora i creditori dei dogi.
Cos’è che spinge un creditore a prestar denaro a uno Stato? La fiducia in quello Stato, nella saldezza delle sue istituzioni, nel suo buongoverno, e ovviamente nella capacità di quello Stato di onorare le rate del suo debito.
Finché un tale meccanismo ha funzionato, i titoli di Stato hanno funzionato. Il meccanismo si è inceppato nel momento in cui (lo ricorda Chris O’ Malley nel suo Bond without Borders. A History of the Eurobond Market, Wiley 2015) gli Stati sovrani si sono mostrati cattivi pagatori rinnegando i loro debiti, costringendo il mercato a prestare a brevissimo o a breve termine e ad alti tassi d’interesse.
L’Olanda, con la piazza di Amsterdam, fu il primo Paese in cui fiorì il mercato di titoli.
Quando nel 1602 il Governo olandese sostenne con vigore la creazione della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, cui avrebbe dato il monopolio dei commerci in tutta l’Asia per oltre due decadi, il compagnia stessa emise titoli sottoscritti da oltre un migliaio di investitori olandesi. Era un investimento a occhi chiusi, dato che non si sapeva ancora quali risultati avrebbero prodotto le esplorazioni delle terre asiatiche condotte dalla Compagnia. Non era stata organizzata ancora una spedizione vera e propria; gli investitori dovevano fidarsi e per ottenere la loro fiducia la Compagnia delle Indie aveva emesso buoni di vario taglio per incoraggiare gli investitori (ma anche gli speculatori). Poi giunsero al porto di Amsterdam le prime spezie, il mercato dei titoli fiorì e la Compagnia delle Indie prosperò. Non bisogna tuttavia dimenticare che, per accendere i primi crediti alla Compagnia Olandese delle Indie Orientali, il governo olandese stava a garantire la bontà dei titoli emessi e la proficuità delle future sue attività nelle lontane terre dell’Asia.
A replicare l’esempio della Compagnia delle Indie orientali non solo nacquero in Europa compagnie simili tese allo sfruttamento delle conquiste coloniali (e quindi fiancheggiatrici della politica internazionale dei rispettivi governi nazionali) ma prosperarono altresì i primi brokers che raccoglievano denaro da piccoli, medi e grandi investitori privati.
L’esempio della Hope & Co, è calzante. Fondata nel 1762 da una famiglia scozzese dal cognome beneaugurante, la Hope s’impose ben presto sulle piazze di Rotterdam e di Amsterdam. La sua mission? Prestare denaro raccolto da piccoli e medi risparmiatori e finanziare Paesi come Svezia, Russia, Polonia, Portogallo e Baviera alla fine della Guerra dei Sette Anni. Dal Portogallo, a titolo di garanzia, Hope & Co. ricevette una concessione esclusiva per lo sfruttamento delle miniere di diamanti in Brasile. I diamanti furono poi venduti sulla piazza di Amsterdam, con un ricavato che coprì sia gli interessi sia la cifra base del debito mercato portoghese. Risultato? Grazie al debito del Portogallo Amsterdam divenne la prima piazza diamantifera d’Europa. Sull’esempio portoghese Hope&Co (ormai trasformatasi in una banca d’investimento), effettuò dieci prestiti alla Svezia nell’arco di vent’anni (1767-1787) e diciotto alla Russia in cinque anni (1788-1793). In cambio del prestito di circa un milione e mezzo di fiorini a un tasso del 4,5%, la zarina Caterina di Russia fece della Hope&Co l’unico esportatore di zucchero in Russia, e il rappresentante per le esportazioni russe di grano e legno. Fu l’inizio di un rapporto duraturo, cessato solo con la caduta dell’Impero zarista nel 1917.
La banca olandese Hope&Co (che negli anni successivi avrebbe visto varie trasformazioni societarie) può quindi considerarsi il primo vero operatore di titoli di Stato “europei” nel senso letterale del termine.
La finanza nell’Europa dei rivolgimenti
Neppure è il caso di soffermarsi sugli effetti finanziari provocati dalla Rivoluzione francese e dalle guerre napoleoniche. I mercati dei titoli di Stato e obbligazionari subirono immani crolli poiché vari Governi cessarono di pagare i loro debiti. Nelle guerre napoleoniche la Gran Bretagna (che già aveva impegnato vaste somme) assunse il ruolo di prestatore di denaro ad altri Stati in guerra, affinché con ne uscissero per un default finanziario. La piazza di Amsterdam (anche per effetto dell’annessione dell’Olanda alla Francia) fu soppiantata da quella di Londra, e ciò fece la fortuna degli investitori e dei banchieri inglesi, ma anche di quelli stranieri, presto trapiantatisi a Londra, come i prussiani Rothschild. Proprio ai Rothschild il governo inglese affidò il pagamento dei salari ai soldati al fronte e dei sussidi agli alleati europei dell’Inghilterra.
Anche dopo la Conferenza di Vienna del 1815 prosperò il mercato dei prestiti basati su titoli di stato emessi dai Paesi europei. I prestiti divennero via via anche tecnologici, orientati a finanziare quelle società (non di rado anche statali) sempre più impegnate, in piena rivoluzione industriale, nelle scoperte, nelle invenzioni e nel loro utilizzo (si pensi all’elettricità, al telegrafo e poi al telefono).
Anche la guerra civile americana fu da stimolo alla crescita degli intermediari finanziari, con le maggiori piazze europee impegnate in qualità di prestatori. Durante la guerra di secessione i confederati difficilmente riuscirono a finanziarsi su quelle piazze: non tanto per una qualche solidarietà degli europei con il governo centrale di Washington, quanto per le ripetute sconfitte militari subite dai confederati. Ma nonostante ciò, questi trovarono ascolto in Europa: non a Londra ma a Parigi, dove la Banca Erlanger Loan fornì ai ribelli 75 milioni di franchi francesi a un tasso d’interesse del 7%. E’ importante però dire che la francese Erlanger, capofila dell’operazione, raccolse il denaro necessario ai confederati sulle maggiori piazze finanziarie dell’epoca: non solo Parigi ma anche Londra, Liverpool, Amsterdam e Francoforte. La contropartita? I Cotton Bonds, titoli che davano ai sottoscrittori il diritto a forniture di cotone a un prezzo di assoluto favore, per poi rivenderlo in Europa a oltre il doppio per libbra, ma pur sempre alla metà rispetto al prezzo di mercato. Si era ormai nel campo della speculazione pura: l’investitore, per ogni singolo cotton bond da 90 sterline, avrebbe potuto ricavarne dalle 180 alle 200.
Dopo la Guerra di secessione i mercati finanziari europei divennero sempre più connessi allargandosi anche al mercato delle valute. A fine dell’Ottocento questa prima “globalizzazione” poteva dirsi un fatto compiuto.
«Un governo – scrive sempre O’ Malley – può finanziare una guerra in tre modi: può aumentare le tasse, può prendere in prestito o può stampare moneta. Aumentare le tasse è il modo più impopolare e doloroso, mentre le possibilità di finanziare il debito possono essere limitate e premere sui tassi d’interesse. Stampare moneta, a ogni modo, fa sembrare la guerra priva di costi all’uomo medio. La situazione economica in Europa allo scoppio della guerra [nel 1914] indusse molti a credere che un conflitto esteso sarebbe stato rovinosamente dispendioso e che quindi sarebbe finita in settimane o alla peggio in mesi. Sfortunatamente furono trovati i modi per finanziare la lotta» (O’ Malley, Bonds without Borders, cit. pp. 8-9).
Nell’agosto del 1914 le riserve auree della Banca d’Inghilterra ammontavano a nove milioni di sterline; le banche inglesi temevano che una dichiarazione di guerra avrebbe scatenato una corsa agli sportelli. Fu così che il Primo Ministro Lloyd George allungò di tre giorni le ferie bancarie di agosto per avere il tempo di far approvare il Currency and Bank Notes Act, con cui la Gran Bretagna abbandonava il Gold Standard, esempio che fu seguito dagli altri belligeranti, con l’effetto di produrre una significativa inflazione.
Nella natura della vita degli Stati molto spesso la politica coglie di sorpresa la finanza con i suoi rivolgimenti. La guerra europea colse di sorpresa i mercati diffondendo shock e panico tra gli investitori, che iniziarono a vendere qualsiasi tipo di obbligazione in loro possesso. Ciò indusse le autorità governative in tutto il mondo a chiudere le rispettive borse. Rimase aperta quella di New York, sul cui mercato il dollaro restava convertibile in oro.
Crollò il mercato dei corporate ma esplose quello dei titoli di Stato con cui i belligeranti dovevano finanziarsi la guerra. Centro di gravità di queste transazioni divenne New York. Gli investitori americani diedero prova di patriottismo sottoscrivendo nel biennio 1917-1919 tre miliardi di dollari in obbligazioni federali, e vendendo i titoli detenuti in Europa. A ciò si aggiunsero i Liberty Loans e i Victory Loans per un ammontare di quattro miliardi e mezzo di dollari. Questa carica di fuoco finanziaria fece sì che le potenze dell’Intesa guardassero agli Stati Uniti, loro “associati” (non alleati) in guerra, come prestatore di ultima istanza. La Gran Bretagna prese in prestito 1.250 milioni di dollari, la Francia 640 e la Russia 107. La situazione per gli Stati Uniti era dunque profondamente mutata: da debitore in recessione, erano diventati una potenza economica grazie proprio dalla guerra, con un aumento dell’occupazione e dei profitti nel comparto industriale, dato che gli Stati Uniti si erano trovati a essere il principale finanziatore e fornitore dell’Europa in guerra.
I vincitori della prima guerra mondiale, com’è noto, non furono magnanimi con la Germania sconfitta. Inizialmente a questa furono richiesti 226 miliardi di marchi oro (allora equivalenti a centomila tonnellate di oro puro). Era una cifra impossibile da pagare. Si procedette allora a stimare un equivalente in valuta estera; ma acquistare valuta estera usando il marco in caduta libera era impossibile, e i tentativi in tal senso avevano prodotto un’iperinfazione tale che un chilo di pane costava ormai svariati milioni di marchi. Dal trattamento economico inflitto alla Germania dopo la prima guerra mondiale, com’è noto, prese le distanze l’economista John Maynard Keynes, il cui libro Le conseguenze economiche della pace ebbe profonda eco nelle relazioni internazionali.
L’integrazione euro-americana
A differenza della prima, la seconda guerra mondiale non piovve come un evento inaspettato. Si registrò una fuga di capitali verso la piazza di New York, sotto forma di depositi bancari piuttosto che di obbligazioni. Anzi proprio lo strumento obbligazionario emesso da belligeranti o neutri perdeva di senso, dato che ogni Paese cercava di evitare fughe di capitali all’estero.
Fu alla Conferenza di Bretton Woods, nel 1944, che si pensò a nuovi strumenti che avrebbero traghettato la società internazionale verso una nuova economia postbellica, e che avrebbero dovuto impedire il ripetersi della depressione del Ventinove. In questa occasione John Maynard Keynes ebbe un ruolo centrale: sostenne l’esigenza di misure fiscali e monetarie per evitare una nuova crisi. Soprattutto egli riteneva che le economie fossero interconnesse; sulla base di ciò auspicava l’adozione di una moneta unica e la creazione di una banca unica. Questa banca unica sarebbe poi diventata divenne poi la Banca Mondiale, mentre la visione di Keynes di una “moneta unica mondiale” fu annacquata dalla semplice creazione del Fondo Monetario Internazionale, data la ritrosia dei conservatori americani. A Bretton Woods si tentò, ovviamente, di ritornare a un regime di cambi fissi; ma Londra aveva ormai perso il primato di capitale finanziaria a vantaggio di Washington. Il dollaro diventava valuta pregiata a fronte della svalutazione delle altre monete. E tutti i Paesi europei ne fecero incetta. La forte leadership americana dal punto di vista politico sarebbe stata poi sancita dal varo del Piano Marshall.
Il ritorno della centralità della finanza europea. Gli Eurobond
La Banca Mondiale dal 1946 e fino al 1963 procedette a una vasta emissione di titoli sul piano internazionale. Ma chi erano i debitori da cui i bond provenivano? Erano l’Australia, il Belgio, la Nuova Zelanda, la Danimarca, la Banca per lo Sviluppo del Giappone, vari enti italiani e francesi; ma anche la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Potevano gli investitori americani essere interessati a questo tipo di titoli? No, dato che essi non erano competitivi rispetto all’offerta interna. Ma la cosa che va notata è che tra coloro che avrebbero emesso bond per l’operazione gestita dalla Banca Mondiale c’era anche la prima Comunità, quella del carbone e dell’Acciaio (CECA). Un episodio che andrebbe studiato meglio, dato che rappresenta un precedente per il dibattito odierno.
Lo scarso interesse mostrato mercato americano verso l’operazione della Banca Mondiale aprì molti varchi al mercato svizzero, contraddistinto da bassi tassi d’interesse, quindi da oneri minori per i debitori. Il mercato europeo dunque ritornò centrale. O’ Malley ci informa che il cosiddetto Euromarket iniziò a crescere rispetto agli altri mercati, anche grazie ad alcune sue caratteristiche: la libertà, la creatività e soprattutto la facilità con cui potevano introdursi e attuarsi nuove idee d’investimento. Per quanto non si potesse determinare se queste nuove idee scaturissero da esperienze sui mercati interni o dalla peculiarità del mercato europeo, il mercato degli Eurobond ricosse consensi proprio per la sua originalità.
Intanto, alla metà degli anni Ottanta, la CEE si era allargata a dodici membri comprendendo, oltre ai sei originari, Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca, Grecia, Spagna e Portogallo. Alla svolta del trentennale della sua vita, tuttavia, la CEE non era ancora riuscita a realizzare lo scopo principale per cui era nata: la realizzazione del mercato comune. «Essa aveva solo prodotto – scrive O’ Malley – un vasto numero di direttive e di regolamenti, riscontrando problemi nell’attuarli dato che il necessario consensus rendeva difficile procedere con il progetto del mercato unico».
Con l’Atto Unico Europeo del febbraio 1986 s’intendeva giungere al mercato unico entro il 1992 e realizzare l’Unione monetaria ed economica. Importante, a questo punto, è dire che cosa accadde a quel percorso europeo fissato nell’Atto Unico, al momento della caduta del muro di Berlino.
O’ Malley (p. 132) riporta ciò che scrisse Der Spiegel: «Prima della caduta del muro di Berlino, l’Unione monetaria europea era stata un ambizioso progetto della CEE come tanti altri. Dopo fu lo strumento politico centrale con cui legare la Germania ingrandita alla Comunità europea». Il Trattato di Maastricht, che fissava la roadmap dell’Unione europea e di quella monetaria europea, fu concepito proprio a questo fine.
L’Unione monetaria, per quanto promettente, non mantenne tutte le promesse. L’arrivo di internet accelerò, se non amplificò, le pratiche speculative dei mercati finanziari, con numerose bolle note sotto il nome dotcom bubbles. Nacquero nell’eurozona nuove piattaforme multi-trading finalizzate ad allargare l’offerta di titoli, rendendo con ciò anche più facile la speculazione e meno controllabile il processo da parte degli investitori di prima istanza.
L’undici settembre provocò una crisi per molti titoli; ma il ruolo mantenuto dagli Stati Uniti sul piano internazionale alla fine giovò alla tenuta di Wall Street. Non mancarono tuttavia bancarotte come quella della Enron o della Worldcom. Si erano aperti problemi di corporate governance dovuti alla falsificazione dei libri contabili, considerata un grave reato federale. Ne scaturì una crisi di fiducia sia verso le obbligazioni sia verso il mercato degli Eurobond, con conseguenze anche sul piano dell’occupazione a causa dell’impossibilità per molte imprese di rifinanziarsi. Il famoso SOX (Sarbanes-Oxley Act) del 2002 inasprì le pene per questi reati, creando dei nuovi standard di responsabilità penale.
Dall’altra parte dell’Atlantico, invece, rimasero tutte le problematiche collegate alle modalità di funzionamento dell’Unione Europea. Questa visse molte crisi di fiducia, come dimostrano quelle del “debito sovrano” portoghese e greco.
Nel 2011 si parlava insistentemente di un possibile default del Portogallo, effetto di una crisi in verità iniziata due anni prima sull’onda di quella più generale del 2008. Nel marzo del 2011 il Primo ministro portoghese Socrates si dimise dopo che il suo piano di austerità “lacrime e sangue” fu respinto dalle opposizioni in Parlamento. Nell’aprile si era a un passo dalla bancarotta. Due agenzie di rating, Standard&Poors e Fitch, declassarono il debito sovrano portoghese e il Portogallo, per mezzo del nuovo primo ministro, il conservatore Pedro Passos Coelho, chiese alle autorità monetarie europee un salvataggio che richiese tre settimane di negoziati con la troika, conclusi con lo stanziamento di 78 miliardi di Euro a titolo di bailout (salvataggio) del Portogallo, di cui 12 miliardi per salvare il suo sistema bancario. In cambio, il Portogallo dovette accettare dalla troika una serie di misure di austerità per ridurre il deficit dal 9,1% del PIL al 5,9 entro la fine del 2011.
In un tempo così breve, le misure di risanamento avrebbero dovuto comprendere provvedimenti come un aumento delle tasse e riduzioni consistenti della spesa pubblica. Quali i costi sociali di quest’operazione? Ovviamente tali costi non erano contemplati nell’agenda della troika, che impose alle autorità portoghesi, oltre alla riduzione della spesa pubblica, una riforma sul lavoro che rendesse più facili i licenziamenti, la riduzione del 10% dei sussidi di disoccupazione, l’aumento dell’IVA, l’aumento dei giorni lavorativi in calendario cancellando alcune festività, e una politica di tagli stipendiali pari a un quarto per i dipendenti pubblici.
Ma i negoziati fra il Portogallo e la troika erano finalizzati anche a proteggere l’Eurozona, e soprattutto a sostenere l’Euro rispetto al dollaro. Ciò significa che parte dei benefici delle operazioni di bailout ricadeva sulla stessa Unione Europea.
Il caso del bailout della Grecia rende più evidente tale aspetto.
Come informano le fonti bene informate del Sole 24 Ore (in un articolo di Vittorio Da Rold del 2 luglio 2018), «nel 2009 Il direttore generale del Fmi Christine Lagarde e la cancelliera Merkel erano pronte a considerare un’uscita di Atene dall’euro ma vennero frenati dall’allora governatore della Bce, Jean Claude Trichet, e dal ministro delle Finanze di Berlino, Wolfgang Schäuble che temevano ripercussioni per le banche tedesche, francesi e olandesi piene di bond greci (più redditizi dei bund) e ritenuti senza pericolo perché nell’eurozona (moral hazard)». Ebbene, in questo caso «Germania e Francia decisero di non applicare l’haircut (il taglio del debito) come chiedeva insistentemente il Fmi per evitare di dover poi salvare a proprie spese le rispettive banche nazionali pesantemente coinvolte»; per cui «i si limitò all’austerità e ai prestiti statali (non c’era ancora il Fondo salva stati) e a consentire alla Bce di acquistare bond greci sul mercato secondario venduti dalle banche francesi, tedesche e olandesi a piene mani».
Quanto precede sta a dimostrare che per l’Unione Europea la tenuta dell’Eurozona non ha (o non sempre ha avuto) valore di principio, bensì è stata finalizzata a salvare alcuni sistemi nazionali a scapito di altri. Gli investitori in bond greci erano investitori puri o speculatori? E, in ogni caso, il salvataggio della Grecia da parte dell’UE, e conseguentemente dell’Eurozona, non aveva carattere di difesa di interessi nazionali in maniera obliqua ed iniqua?
Conclusioni sull’Unione malata
Questi esempi di bailout dell’Eurozona sono indicativi delle debolezze dell’Unione Europea, nonostante i suoi innegabili punti di forza. L’Europa oggi rischia la dissoluzione, semplicemente per il fatto che non si riconosce legata a uno scopo comune, che doveva sostanzialmente essere quello di superare tutti insieme l’emergenza e cogliere questa occasione per ricostruirsi.
Not in my backyard è stata anche la linea di salvataggio dell’Eurozona, come dimostra la prima fase della crisi del debito sovrano in Grecia. Ma la cosa più grave è che soprattutto i “frugali nordici” credono a questo principio.
Prendiamo l’esempio degli eurobond: perché gli olandesi e i “frugali nordici”, che ne sono i veri inventori, ora li rifuggono? Come abbiamo visto, gli eurobond (avevano già questo nome tecnico) erano titoli di debito sovrano che i grandi banchieri (olandesi e tedeschi in testa) acquistavano specialmente quando le grandi potenze avevano necessità di finanziarsi guerre e ricostruzioni post-belliche. Quando nacque la CEE, gli eurobond non mutarono aspetto. Si cercò di renderli altra cosa ma in ultima analisi essi non hanno mai espresso alcuna solidarietà europea. Del resto mancavano in sede comunitaria, nonostante il cammino verso la moneta unica, politiche uniche fiscali e del welfare. Per cui né la CEE né l’UE sono mai riuscite a essere unico emittente di eurobond e unico debitore in solido.
Detto in altre parole, l’Unione Europea non riesce ancora a realizzare un altro degli scopi fondamentali per cui si chiama “Unione”: trasformarsi in unico debitore solidale, con uno scopo condiviso (nel tempo che viviamo: affrontare un dopoguerra economico e politico su una linea perlomeno trentennale), mantenendo l’Unione coesa e legata ai fini per cui essa nacque oltre sessant’anni fa.
Non comprendere ciò è il vero rischio che oggi sta correndo l’Unione Europea.
I trattati e gli strumenti finanziari non sono in sé buoni o cattivi, ma solo il prodotto di certe intenzioni degli uomini in un certo arco di tempo. I trattati, anche quelli dell’UE e del MES, non sono eterni. Valgono fino a quando non mutano le fondamentali circostanze che li hanno prodotti. Un mutamento fondamentale di circostanze determina, quindi, o la modifica o l’estinzione dei trattati.
Ciò detto, mutare ora i trattati richiederebbe un tempo lungo che non possiamo permetterci di perdere. Ma per esempio si potrebbe modificare il trattato istitutivo del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) con un memorandum d’intesa per variare le condizioni del prestito, trasformando il trattato da “cappio al collo della Grecia” a strumento di “solidarietà sanitaria” europea. C’è poi l’avversione di molti alla parola “coronabond/eurobond”. Al netto delle polemiche e delle posizioni politiche, il dato certo è il seguente:
- L’Europa ha oggi bisogno di circa 1300 miliardi (se non 1500) di Euro spalmati su un tempo almeno trentennale; come riconosce lo stesso direttore del MES, la cui recente intervista al Corriere della Sera sembra sia sfuggita ai più.
- I titoli da emettere devono essere europei come simbolo di un’Unione che o è o non è, e quindi accendendo per la prima volta, nel pieno della prima vera grande crisi del ventunesimo secolo, un debito solidale in base a quella stessa logica con cui la Germania nel 1953 smise di pagare i suoi grazie a un’Europa unita nell’intento di risollevarla.
- L’Italia è al momento appoggiata da Francia, Belgio e Lussemburgo. Fanno in tutto quattro Paesi fondatori originari della Comunità europea. Questo è un dato politico da far pesare nel negoziato. Dall’altro lato ci sono la Germania (che in verità sta cercando freneticamente di mediare proprio in queste ore) e l’Olanda, frugale ma non troppo, se i rapporti dell’intelligence finanziaria sul suo conto sono veri (e sono veri).
Le istituzioni, di per sé, non sono né buone né cattive. Dipendono dagli uomini che le hanno create. Tuttavia esse «sono più corrotte e più guaste degli individui, perché hanno più potere per fare del male, e sono meno esposte al disonore e alla punizione», scriveva Hazlitt. Sarebbe il caso che le Istituzioni nazionali ed europee si ricordassero di questa massima. Personalmente, riteniamo che per la comunità internazionale questo non sia un tempo di sovrastrutture e di lesinare beneficienza pelosa stanziando a bilancio uno “zerovirgolaqualcosa”.
Anche l’economia è una scienza umana. Occorre ricordarsene. Diceva Alfred Marshall: «Primo, usa la matematica piuttosto come un linguaggio stenografico, come molla della ricerca; secondo, attieniti alla matematica solo finché giungi ai risultati; terzo, traduci poi i risultati in buona lingua; quarto, illustrali con esempi che abbiano importanza e che riguardino la vita reale; quinto, brucia quindi la matematica; sesto, se il punto quarto non ti riesce, brucia tutto».